Nessuno mi può Giudicare.
Una sera come un'altra: smetto di lavorare, piove a dirotto, aspetto l'autobus per tornare a casa. Lo ammetto, l'umore non è dei migliori. Salgo sull'autobus e mi siedo sui sedili in fondo, per non essere disturbata, all'occorrenza, dal classico vicino di sedile a cui va di parlare...
Poche fermate, però, e non sono più sola: l'autista apre le porte a quattro nuovi passeggeri, dei ragazzetti molto trendy (come si dice oggi) che subito iniziano a fare un gran chiasso. Mi guardano divertiti e indagatori, quasi come fiere che annusano la preda e - fiutata una cattiva aria con me - decidono di dedicarsi ad una ragazza seduta poco più avanti. Approfittando del vapore sui vetri scrivono cose poco carine, le toccano i capelli, il cappotto, le danno chiaramente fastidio. Io infilo le cuffie e metto il volume della radio al massimo per non sentirli, la povera vittima chiede con gentilezza di essere lasciata in pace, ma le quattro piccole belve decidono di continuare.
Lo sento, sto per scattare. Ma poi qualcosa mi dice che, anche se all'apparenza sembrano una gang di bulli, sono pur sempre dei ragazzini che agiscono senza pensare.
Dentro di me sento che se li attaccassi scatenerei reazioni poco civili, anche se non ho alcun timore di domarli e so (scusate l'immodestia) che ci riuscirei. Quasi in un flash, invece, mi metto nei loro panni e comprendo che se qualcuno mi facesse una paternale non lo terrei nemmeno in considerazione.
Non sono una che ignora situazioni come questa, comunque, e quindi decido di parlare con loro.
Gli chiedo quanti anni hanno. 18, mi dicono. «Sapete quanti ne ho io?». Uno di loro indovina al volo, gli altri li vedo seccati, rassegnati al "predicozzo", pronti ad attaccarmi. Un altro mi chiede che lavoro faccio. «La giornalista», rispondo. «Si vede», mi dice con aria estremamente critica. «Perché?», chiedo. «Da come parla». Ah... e dire che non ho ancora detto nulla. Una signora si gira e inizia a dire che questi giovani vanno capiti perché non hanno alternative al loro modo un
po' pesante di divertirsi. «Altro che se ce l'hanno», dico io. «l'alternativa dipende da noi stessi. Siamo noi che ci diamo delle possibilità o ce le neghiamo, troppo facile dar la colpa agli altri. Però una cosa è certa: nessuno va giudicato e nessuno può giudicare. Solo che il rispetto è sacrosanto. Ognuno di noi deve imparare a rispettare gli altri, che si tratti di un 70enne nei confronti di un 18enne e viceversa. Il rispetto per l'altro è una cosa su cui non transigo e voi - dico ai ragazzi - state mancando di rispetto a questa ragazza. E a voi stessi, perché questa ragazza potrebbe essere vostra sorella e potrebbe incontrare su un autobus gente che la tratta come voi». Insomma, bene o male il predicozzo è venuto fuori lo stesso. Ma loro mi guardavano seri, silenziosi, interessati.
Dopo pochi minuti eravamo lì, signora compresa, a ridere e scherzare come vecchi amici, a parlare di scuola, lavoro e tatuaggi. Continuava a piovere, ma dentro mi sentivo come una 18enne al ritorno da scuola e capivo di aver sconfitto un
po' della mia intransigenza, perché in effetti io più di una volta i giovani (quelli più giovani di me, s'intende), mi sono permessa di giudicarli e non troppo positivamente. Invece ho capito che vanno ascoltati, osservati e capiti a loro volta.
Solo così si riesce ad aiutarli davvero, mostrandogli la strada per giungere al meglio di sé.
Floriana Riggio
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